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Innovazione, la “Arduino way” Il saper fare al ritmo digitale

La “italian way” all’innovazione, forse, porta il nome di un bar. L’Arduino di Ivrea, che a sua volta si ispira a un re, e tra le cui mura trovavano riparo alcuni dei fondatori di una delle novità più fuori canone degli anni digitali. Ovvero, appunto, Arduino, una scheda con microchip capace di diventare la chiave con cui (quasi) chiunque – l’open source è alla base della risorsa in questione – può realizzare prototipi, dispositivi, sensori. Massimo Banzi, fondatore della piattaforma potenzialmente più rivoluzionaria dei nostri anni, è stato ospite al Galileo Innovactor’s festival a Padova. Dove ha raccontato, interloquendo con Stefano Micelli stimolato dalle domande del direttore del Festival Massimo Sideri, l’avventura e gli orizzonti che può schiudere. «Sono partito dall’idea che tutto oggi è digitale, anche gli oggetti materiali; e da una domanda: come si fa a convincere tutte le persone che l’innovazione passa da qui? – racconta Banzi, fresco di contatti con colossi come Intel e di pluricitazioni da parte di Microsoft, tanto per dire quali corde Arduino abbia toccato – Ho pensato che occorre rendere accessibili le tecnologie nella loro materialità per costruire gli oggetti del domani, per progettarli. In Africa, per dire, c’è chi con Arduino ha creato un sistema per riconoscere e diagnosticare malattie. E’ il nostro concetto dell’open source: usare strumenti che abilitano le persone a realizzare cose, chi usa questo sistema può diventare maker». Un modello di business, certo, che ha raggiunto negli ultimi anni ritorni ragguardevoli. Ma molto di più: Arduino infatti è un modello che abilita letteralmente la nascita di piccole aziende. «La nostra è un’innovazione – spiega Banzi – che non ha a che vedere con la sofisticazione del software, ma al contrario tende a rendere le cose più facili da usare per le persone, non è richiesta una conoscenza particolare nella tecnologia utilizzata. In Italia c’è un tabù legato alla semplificazione: si può fare per i bambini, ma per gli adulti di solito si teme di banalizzare e di consentire a tutti di essere degli esperti. Noi abbiamo seguito il principio opposto». Con tanto successo, da far dire a Stefano Micelli, economista, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore di “Futuro artigiano” (Marsilio): «In Italia abbiamo sempre innovato in alcuni settori: meccanica, robotica industriale, design, sistema casa, aree in cui siamo leader mondiali, mentre gli Usa lo sono in chiave industriale, noi interagiamo con chi utilizza alla fine il prodotto. Per questo noi abbiamo supremazia in quei settori dove dall’altra parte del tavolo c’è una persona che reclama qualcosa, ma non altrettanto nella finanza, per esempio. Chi aveva l’esperienza – spiega però Micelli – quando è arrivato il digitale è entrato in crisi perché non riusciva più a farsene carico, perché non poteva più mettere concretamente le mani nell’oggetto. Dunque perché Arduino è fondamentale? Perché rimette al centro un’idea italiana di innovazione: Banzi – spiega convinto Micelli – è riuscito a dire ad aziende e persone che erano in un vicolo cieco, ‘mettiti in gioco con le tue regole, l’esperienza, il saper fare’. Così si consente ad un certo modo di fare impresa di entrare in un’economia in cui eravamo in difficoltà. È un’Italian Way diversa dalla verticalità di pochi grandi centri di ricerca, ma che ha l’estro di cui parlava Calvino, e che trova spazio nell’ orizzontalità della condivisione. Arduino è il pivot che serviva per rimettere l’Italia al centro dei processi produttivi e innovativi». E ascoltando Banzi si capisce perché il successo che è arrivato ha tutta l’aria di non essere effimero. Alla faccia dell’idea che il virtuale, e il digitale, siano per forza risorse coniugabili solo con l’idea di velocità: «Il progetto compie 10 anni – spiega il fondatore – ma per i primi 6 o 7 era basato su un ritorno economico molto basso; noi abbiamo poi reinvestito nel miglioramento i proventi successivi, e poi era un prodotto poco costoso. Ma l’insegnamento che mi sentirei di trarre dall’esperienza – aggiunge – è che se si parte solo per ‘fare business’ ci si chiudono delle porte; se invece si vuole sperimentare ci sono forse altre strade da battere, servono valori e principi e non pensare esclusivamente all’idea che può far guadagnare, altrimenti non si crea la crescita della comunità che sta intorno al progetto». Una comunità che spiega bene perché Arduino è senza copyright: l’idea è che proprio la comunità di supporto sia la prima vera difesa, e nasce da un modo circolare di intendere il sapere, che venendo apprezzato proprio per la sua natura ‘open’, costruisce per questa via il ‘cordone di difesa’ attorno a sé, fatto da chi lo apprezza così com’è. «Certo – chiosa Banzi – ci sono i cloni cinesi di quasi tutto, ma se si sa costruire quella comunità che apprezza ciò che fai, ti difendi così. Noi per esempio abbiamo una grande risposta alla richiesta on-line, proposta quasi per vedere l’effetto che fa, di investire soldi per lo sviluppo di Arduino, rivolta a chi ha apprezzato il software». Micelli spiega anche come, attorno ai Fab lab e al loro recentissimo boom, si stia aggregando una comunità che non trovava nei «centri di trasferimento tecnologico» lo strumento per fare appunto un upgrade sul piano tecnologico. Cioè, detto in altre parole, la capacità creativa messa all’opera comincia a portare le imprese a stare in piedi da sole. «Lo Stato, il pubblico alcune cose le può fare – spiega Micelli – può mettere a disposizione spazi di qualità, oppure far arrivare la banda larga dappertutto, ad esempio. Abbiamo pensato a lungo di essere fuori dal gioco, ora invece i nuovi artigiani innovativi ci sono, i ventenni si scatenano alla ricerca di innovazione. Se c’è una cosa che la politica deve fare, è dichiarare al resto del mondo che ci crede e che questa è una cosa seria».

da Monitor, Domenica 19 Aprile

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